Sono quella che voglio essere ?
Uno dei discorsi che mi ha ispirato di più nella mia crescita spirituale l’ho letto ne “La Stella” la rivista della chiesa in Italia di allora.
Era stato pronunciato dall’anziano Monson, il primo consigliere della Prima Presidenza e mi colpì forse perché forse era quello che avevo bisogno di sentire. Per questo siccome credo che mi sia stato molto utile, ed ha avuto un buon impatto sulle mie azioni, mi piacerebbe condividerlo con chiunque leggerà questo post.
Come dare il meglio di noi stessi
Tanto tempo fa e in un luogo tanto lontano il nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo mostrò alla moltitudine e ai Suoi discepoli «la via, la verità e la vita».1 Egli impartiva consigli con le Sue sante parole. Egli ci ha dato un esempio con la Sua vita esemplare. Spesso il Signore faceva ai Suoi ascoltatori questa domanda: «Che sorta di uomini dovreste essere?»2
Durante il Suo ministero nel continente americano Egli aggiunse a questa domanda alcune importanti parole: «Che sorta di uomini dovreste essere? In verità io vi dico: così come sono io».3
Durante il Suo ministero terreno il Maestro spiegò come dobbiamo vivere, come dobbiamo insegnare, come dobbiamo servire e che cosa dobbiamo fare in modo da poter esprimere il nostro massimo potenziale.
Una lezione a questo proposito ci proviene dal vangelo di Giovanni, nella sacra Bibbia: «Filippo trovò Natanaele, e gli disse: Abbiam trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella legge, e i profeti: Gesù figliuolo di Giuseppe, da Nazaret.
E Natanaele gli disse: Può forse venir qualcosa di buono da Nazaret? Filippo gli rispose: Vieni a vedere.
Gesù vide Natanaele che gli veniva incontro e disse di lui: Ecco un vero Israelita in cui non c’è frode!»4
Durante il nostro soggiorno sulla terra abbiamo una guida celeste nell’esortazione dell’apostolo Paolo: «Tutte le cose vere, tutte le cose onorevoli, tutte le cose giuste, tutte le cose pure, tutte le cose amabili, tutte le cose di buona fama, quelle in cui è qualche virtù e qualche lode, siano oggetto dei vostri pensieri». Poi troviamo questo ammonimento: «Le cose che avete imparate, ricevute, udite da me e vedute in me, fatele; e l’Iddio della pace sarà con voi».5
Nella nostra ricerca dell’eccellenza, alcune domande devono fungere da guida ai nostri pensieri: Sono quello che voglio essere? Sono più vicino al Signore oggi di quanto lo ero ieri? Sarò ancora più vicino a Lui domani? Ho il coraggio di cambiare in meglio?
È il momento di scegliere una strada spesso ignorata, la strada che potremmo chiamare «la strada della famiglia», affinché i nostri figli e nipoti possano davvero realizzare pienamente il loro potenziale. C’è in questo paese–come negli altri paesi del mondo–una forte tendenza che esprime un chiaro messaggio: «Ritornate alle vostre radici, ritornate alla vostra famiglia, alle lezioni che avete imparato, alla vita che avete vissuto, agli esempi che avete veduto, ai valori della famiglia». Spesso si tratta semplicemente di tornare a casa–tornare a casa in soffitte da tanto tempo ignorate, a diari raramente letti, ad album di fotografie quasi dimenticati.
Il poeta scozzese James Barrie scrisse: «Dio ci ha dato i ricordi in modo che potessimo avere le rose di giugno nel dicembre della nostra vita».6 Quali ricordi abbiamo di nostra madre, di nostro padre, dei nostri nonni, dei nostri familiari, dei nostri amici?
Quali lezioni abbiamo imparato dai nostri padri? Anni fa un padre di famiglia chiese all’anziano ElRay L. Christiansen che nome gli consigliava per la barca che aveva appena acquistato. Fratello Christiansen suggerì: «Perché non la chiami Spaccadomenica?» Sono convinto che quel marinaio in erba fu indotto a meditare se il suo tesoro di barca lo avrebbe indotto a violare o a osservare la domenica. Qualunque sia stata la sua decisione, senza dubbio esercitò una duratura impressione sui suoi figli.
Un altro padre insegnò a un figlio una lezione di obbedienza mai dimenticata e gli insegnò con l’esempio a onorare la santità della domenica. Ne venni a conoscenza durante i funerali di una grande Autorità generale: H. Verlan Andersen. Uno dei suoi figli gli rese un commosso omaggio, un omaggio che riguarda anche noi, ovunque siamo e qualsiasi cosa facciamo. È un esempio tratto dall’esperienza personale.
Il figlio dell’anziano Andersen raccontò che anni prima, un sabato sera, doveva partecipare a una importante attività a scuola. Chiese in prestito l’automobile a suo padre. Dopo aver preso le chiavi, stava per uscire di casa quando suo padre gli disse: «L’automobile avrà bisogno di altra benzina per domattina. Prima di tornare a casa ricordati di fare il pieno».
Il figlio dell’anziano Andersen raccontò che la festa alla quale partecipò fu davvero bella. C’erano tanti amici; i rinfreschi erano ottimi e tutti si divertivano. Tuttavia, preso dall’entusiasmo, dimenticò la richiesta di suo padre di fare benzina prima di tornare a casa.
Spuntò la domenica mattina. L’anziano Andersen scoprì che la lancetta indicava che il serbatoio era vuoto. Il figlio vide suo padre tornare in casa e rimettere sul tavolo le chiavi dell’automobile. Nella casa degli Andersen la domenica era un giorno dedicato al culto e al ringraziamento, non agli acquisti.
Il figlio dell’anziano Andersen continuò così: «Vidi mio padre indossare il soprabito, salutare la famiglia e quindi percorrere a piedi la lunga distanza che ci separava dalla cappella, in modo da poter partecipare alla prima riunione». Il dovere lo chiamava. La verità non poteva venire dopo la comodità.
Concludendo il suo discorso, il figlio dell’anziano Andersen disse: «Nessun figlio ha mai appreso più efficacemente una lezione impartita da suo padre, come feci io in quella occasione. Mio padre non soltanto conosceva la verità, ma la metteva in pratica».
È nella casa che si formano il nostro atteggiamento e le nostre convinzioni più profonde. È nella casa che la speranza viene incoraggiata o distrutta.
Le nostre case devono esser qualcosa di più di santuari: devono anche essere luoghi dove lo Spirito di Dio può dimorare, dove le tempeste si fermano sulla porta, dove regna l’amore e dimora la pace.
Qualche tempo fa una giovane madre mi scrisse: «Qualche volta mi chiedo se quello che faccio ha importanza per i miei figli; specialmente perché, non avendo marito e dovendo fare due lavori per mantenere i figli, qualche volta vengo a casa e trovo tanto disordine. Ma non rinuncio mai alla speranza.
«Io e i miei figli abbiamo seguito la trasmissione televisiva della conferenza generale e abbiamo sentito che lei parlava della preghiera. Mio figlio a quel punto ha detto: ‹Mamma, tu ci hai già insegnato queste cose›. Gli ho chiesto: ‹Che cosa vuoi dire?›. Egli ha risposto: ‹Be’, ci hai insegnato a pregare e ci hai mostrato come si fa; ma l’altra sera sono venuto nella tua stanza per chiederti una cosa e ti ho trovata in ginocchio, mentre pregavi il Padre celeste. Se Egli è importante per te, è importante anche per me›». La lettera finisce così: «Credo che non comprendiamo quanta influenza esercitiamo sugli altri, sino a quando un figlio impara dal nostro esempio quello che abbiamo cercato di insegnargli». Quale stupenda lezione quel figlio imparò da sua madre!
Quando ero ragazzo, alla Scuola Domenicale, proprio il giorno della mamma, feci una straordinaria scoperta il cui ricordo è rimasto vivo in me durante tutti questi anni. Melvin, un fratello cieco del rione dotato di una bella voce, si alzò e, con gli occhi rivolti verso la congregazione come se vedesse tutti noi, cantò: «Alla mia cara mamma». Il ricordo della mamma destato dal suo canto commosse il cuore dei presenti. Vidi molti uomini estrarre il fazzoletto e molte donne con gli occhi pieni di lacrime.
Noi diaconi passammo tra la congregazione portando piccoli vasi di gerani per donarli alle madri. Alcune di loro erano giovani, altre erano di mezza età, altre ancora sembrano tenersi aggrappate tenacemente alla vita tanto erano avanti negli anni. Notai che gli occhi di tutte le madri erano occhi buoni. La parola che ogni madre diceva era: «Grazie». Compresi il senso di questa dichiarazione: «Quando qualcuno dona un fiore, il profumo del fiore rimane sulle mani del donatore». Non ho dimenticato la lezione che imparai allora, né mai la dimenticherò.
Alcune madri, alcuni padri, alcuni figli, alcune famiglie sono chiamati a portare un pesante fardello qui sulla terra. Una di queste famiglie era quella dei Borgstrom, nell’Utah settentrionale. Era il tempo della seconda guerra mondiale. Violente battaglie infuriavano in varie parti del mondo.
I Borgstrom persero tragicamente quattro dei cinque figli che si trovavano sotto le armi. Nel giro di sei mesi tutti e quattro i figli dettero la vita, ognuno in una parte diversa del mondo.
Dopo la guerra i corpi dei quattro fratelli Borgstrom furono riportati a casa a Tremonton, e là fu tenuta un’imponente cerimonia funebre. Il Tabernacolo di Garland era pieno di gente. Il generale Mark Clark era presente alla cerimonia. In seguito raccontò con commozione l’esperienza che aveva fatto: «La mattina del 26 giugno sono andato in volo a Garland e là ho incontrato i familiari dei giovani, tra i quali la madre, il padre e i due figli superstiti . . . uno di essi appena adolescente. Non avevo mai conosciuto una famiglia che mostrava tanta forza d’animo.
Quando le quattro bare ricoperte dalla bandiera furono portate in chiesa e allineate davanti a noi, seduto accanto a quei coraggiosi genitori mi sentii profondamente commosso dalla loro magnanimità, dalla loro fede e dal loro orgoglio per quei figli stupendi che avevano compiuto il supremo sacrificio in difesa dei principi che i loro nobili genitori avevano inculcato in loro fin dalla fanciullezza.
Durante il pranzo la signora Borgstrom si rivolse a me e mi chiesa a voce bassa: «Prenderete nell’esercito anche il mio figlio più piccolo?» Risposi con un sussurro che, finché fossi stato il comandante dell’Esercito della costa occidentale, se il suo ragazzo fosse stato richiamato, avrei fatto del mio meglio per assegnarlo a un incarico in patria.
Mentre tenevo questa conversazione a bassa voce con la madre, il padre improvvisamente si chinò e disse alla moglie: ‹Cara, ho ascoltato la tua conversazione con il generale riguardo al nostro figlio minore. Noi sappiamo che se e quando il suo paese avrà bisogno di lui, egli partirà›.
Riuscivo appena a trattenere l’emozione. Mi trovavo in presenza di genitori con quattro figli morti per le ferite subite in battaglia, e tuttavia essi erano pronti a fare l’ultimo sacrificio se il loro paese lo avesse richiesto».
È il vangelo del Signore Gesù Cristo che faceva sentire la sua presenza in quel giorno che non sarà mai dimenticato.
Gli anni sono passati, ma la necessità di una testimonianza del Vangelo continua ad essere indispensabile. Mentre ci muoviamo verso il futuro, non dobbiamo trascurare le lezioni del passato. Il nostro Padre celeste dette Suo Figlio. Il Figlio di Dio dette la Sua vita. Ci è chiesto da Loro di dedicare la vita al Loro divino servizio. Lo farete? Lo farò? Lo faremo? Vi sono delle lezioni da insegnare, vi sono delle buone azioni da compiere, vi sono delle anime da salvare.
Ricordiamo il consiglio di Re Beniamino: «Quando siete al servizio dei vostri simili, voi non siete che al servizio del vostro Dio».7 Allungate la mano per soccorre chi ha bisogno del vostro aiuto. Innalzate queste persone a un più alto e migliore livello di vita. Cantiamo con i bambini della Primaria: «Guidami, aiutami, cammina insieme a me; dimmi quel che devo far per ritornare a Te».8
La vera fede non è patrimonio dei bambini, ma una cosa che tutti dobbiamo avere. Dai Proverbi impariamo questo principio: «Confidati nell’Eterno con tutto il cuore e non t’appoggiare sul tuo discernimento.
Riconoscilo in tutte le tue vie, ed egli appianerà i tuoi sentieri».9 Così facendo arriviamo a capire che stiamo svolgendo la santa missione che Egli ci ha affidato, che i Suoi propositi divini si sono adempiuti e che noi abbiamo contribuito a tale adempimento.
Consentitemi di illustrare la validità di questo principio raccontandovi un’esperienza personale. Molti anni fa, quando ero vescovo, sentii l’impulso di fare visita ad Augusta Schneider, una vedova originaria della regione dell’Alsazia-Lorena. Ella parlava poco l’inglese, anche se conosceva bene il francese e il tedesco. Per molti anni, dopo aver sentito quella prima impressione, le feci visita in occasione del Natale. Una volta Augusta disse: «Vescovo, ho una cosa che per me ha grande valore, di cui voglio farle dono». Andò a prendere quella cosa e me la mostrò: era un bel pezzo di feltro di circa 15 per 20 centimetri sul quale erano appuntate le medaglie che suo marito si era guadagnato mentre era soldato dell’esercito francese durante la prima guerra mondiale. Ella disse: «Vorrei che lei accettasse questo mio tesoro, questo oggetto a me tanto caro». Protestai gentilmente e le suggerii che forse c’era un suo parente al quale poteva fare tale dono. «No», rispose con fermezza. «Questo dono è per lei, poiché lei ha l’anima di un francese».
Poco dopo avermi fatto quel bel dono Augusta lasciò questa vita terrena e tornò a casa da quel Dio che le aveva dato la vita. Ogni tanto pensavo alla sua affermazione secondo cui io avevo «l’anima di un francese». Non avevo la minima idea di che cosa volesse dire, e ancora non ce l’ho.
Molti anni dopo ebbi il piacere di accompagnare il presidente Ezra Taft Benson alla dedicazione del Tempio di Francoforte, in Germania, tempio che avrebbe servito i membri della Chiesa tedeschi, francesi, olandesi e belgi. Mentre facevo la valigia, mi sentii spinto a portare con me quelle medaglie, senza avere idea di quello che ne avrei fatto.
Durante la sessione dedicatoria in lingua francese il tempio era affollato. Il canto e i discorsi furono bellissimi. La gratitudine per le benedizioni di Dio penetrava in ogni cuore. Vidi dalle annotazioni sul programma che a quella sessione partecipavano anche i membri della Chiesa dell’Alsazia-Lorena.
Durante il mio discorso notai che l’organista si chiamava Schneider. Volli perciò raccontare la storia della mia amicizia con Augusta Schneider. Poi mi avvicinai all’organista e gli feci dono delle medaglie, affidandogli anche l’incarico, dato che il suo nome era Schneider, di svolgere le ricerche genealogiche sulla famiglia Schneider. Lo Spirito del Signore confermò nel nostro cuore che quella era un’occasione davvero speciale. Fratello Schneider ebbe qualche difficoltà nel suonare l’inno di chiusura della cerimonia dedicatoria, tanto era commosso dallo Spirito che sentivamo nel tempio.
Ero convinto che quel prezioso dono, che potremmo chiamare l’offerta della vedova–poiché era tutto quello che Augusta Schneider possedeva–ora si trovava nelle mani di una persona che avrebbe fatto in modo che molti che possedevano un’anima francese ricevessero le benedizioni del sacro tempio, sia per i vivi che per coloro che erano passati dall’altra parte del velo.
Porto testimonianza che a Dio ogni cosa è possibile. Egli è il nostro Padre celeste; Suo Figlio è il nostro Redentore. Se ci sforziamo di conoscere i Suoi principi e poi li mettiamo in pratica, noi, con chi ci sta vicino, saremo abbondantemente benedetti.
Proclamo con tutta solennità che Gordon B. Hinckley è un vero profeta per il nostro tempo e che è guidato dal Signore nel grande lavoro che viene svolto sotto la sua guida.
Ricordiamoci sempre che l’obbedienza ai comandamenti di Dio richiama su di noi le benedizioni promesse.
Che ognuno di noi sia degno di riceverle; così prego, nel nome di Gesù Cristo. Amen.
NOTE 1. Giovanni 14:6.
2. 2 Pietro 3:11.
3. 3 Nefi 27:27.
4. Giovanni 1:4547.
5. Filippesi 4:89.
6. James Barrie, liberamente citato in Peter’s Quotations: Ideas for Our Time, a cura di Laurence J. Peter (1977), 335.
7. Mosia 2:17.
8. Naomi W. Randall, «Sono un figlio di Dio», (Inni, No. 190)
9. Proverbi 3:5, 6.
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